Per Natale il gruppo giovanile dell’oratorio di cui faccio parte ha deciso di partecipare alla messa tenuta dal vescovo di Torino Cesare Nosiglia presso il carcere minorile Ferrante Aporti.
Questa esperienza è stata per me motivo di riflessione sui vari aspetti di un carcere minorile e sulla possibilità che ha un ragazzo uscito di lì di ritrovare una vita normale, perché il carcere non deve punire e basta ma deve svolgere anche un ruolo fondamentale nella reintegrazione sociale una volta fuori dal carcere. Deve quindi garantire alcune materie di studio, sport vari e una formazione lavorativa. È anche importante che questi ragazzi abbiano un sostegno psicologico perché è giusto che trovino un punto di sostegno per capire dove hanno sbagliato, per ritrovare fiducia in se stessi e per risolvere i loro problemi. Questi ragazzi molte volte non hanno una famiglia che li sostiene e sono quasi tutti immigrati che quindi hanno culture differenti. Il problema di fondo però è un altro: come dei ragazzi così giovani sono arrivati a commettere dei reati più o meno gravi? Una causa potrebbe essere che i tanti immigrati che ho visto non siano stati inseriti in modo molto corretto, però questo non toglie che avrebbero potuto provare a reagire in un altro modo, anche se è comunque molto difficile per me giudicare da fuori persone che hanno purtroppo avuto una vita molto diversa dalla mia in termini di ambienti famigliari o perché si sono ritrovati in un paese molto diverso dal loro in termini di cultura, religione, politica, tradizioni e in tutto il resto.
Prima della messa del 23 dicembre sono stato preparato tramite una specie di incontro formativo in cui mi sono state fornite una serie di specifiche domande da non fare ai detenuti per cercare il più possibile di non urtare la loro sensibilità e di non farli star male. Domenica 23, insieme al mio gruppo, siamo dovuti arrivare al carcere circa 45 minuti prima per ragioni di sicurezza. Appena entrati la prima cosa che mi è saltata all’occhio sono state le le finestre delle celle perché erano completamente coperte per evitare che i detenuti riuscissero a vedere al di fuori del carcere. Prima di entrare all’interno della struttura veniva richiesta la carta d’identità e così quando è stato il mio turno l’ho consegnata alla guardia che l’ha controllata. Mentre lo faceva guardandola in viso e mi sono accorto subito della sofferenza che provava molto probabilmente ad aver a che fare con persone non facili da gestire. Dopo siamo entrati in un salone in cui è stata celebrata la messa. Ovviamente durante la messa i 30 detenuti sono stati separati da noi per ragioni di sicurezza. Al termine della messa ci hanno fatto migrare in un altro salone, e in quel momento ho visto alcune delle sale in cui i ragazzi studiavano o utilizzavano il computer. Siamo giunti in un salone dove solitamente i ragazzi fumano, dove c’erano le cuoche che servivano della cioccolata calda. In questo luogo si poteva socializzare con i ragazzi del carcere. I miei amici del gruppo hanno fatto fatica a socializzare, invece io sono andato subito da tre ragazzi che si trovavano al fondo della sala, ci siamo presentati a vicenda e come primo impatto è stato molto forte perché uno dei ragazzi era tatuato in faccia con una scritta “criminal” sopra l’occhio, però questo non mi ha spaventato, anzi ha aumentato la mia curiosità. Di questi ragazzi non ricordo il nome, ma le loro giovani età ovvero: 14, 17 e 18 anni. Il ragazzo di 17 e quello di 18 anni erano di origini russe e serbe, invece, il ragazzo di 14 anni era di origini africane. Il ragazzo di 17 anni era davvero angosciato al fatto di restare rinchiuso lì dentro, invece, quello di 14 anni era un po’ più aperto e così gli ho chiesto che cosa facessero tutto il giorno e lui mi ha risposto che giocava a calcio, si scaricava e ascoltava musica, giocava a calcetto, scriveva oppure giocava a carte scommettendo qualche sigaretta con i suoi compagni di cella. Mi ha detto che per cella erano in 2/3 e questo lo faceva star bene perché nel carcere in cui si trovava prima a Milano c’era sovraffollamento e questo non dovrebbe succedere anche perché il diritto alla privacy deve essere garantito. Per curiosità gli ho chiesto come si tagliassero i capelli e lui mi ha risposto che gli venivano tagliati con la lametta. Prima di andare via il ragazzo di 17 anni mi ha chiesto di scrivergli una lettera perché non vedeva più nessuno delle persone che aveva conosciuto fuori. Il modo in cui lo ha detto mi ha fatto davvero capire quanto alcuni possano sentirsi soli e quanto io sia fortunato. Quando è giunto il momento di salutarci, alcuni ragazzi hanno cercato di infilarsi tra il mio gruppo per provare a scappare in modo scherzoso ma nel loro scherzare c’era una certo magone misto con la tristezza di restare lì, lo si leggeva nei loro occhi.
Da dopo questa esperienza non sopporto chi si ostina a dire che nelle carceri i detenuti vengono trattati troppo bene perché secondo me tenere chiusa una persona tra quattro mura per mesi o anni è una pena già sufficiente. Non bisogna dimenticare che i detenuti sono comunque persone e non animali, e che errare è umano.